Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza penso sia la cartina di tornasole del perché sia stato fatto cadere il governo precedente, presieduto da Giuseppe Conte, con la conseguenza di imbarcare nella nuova squadra gran parte della destra, compresi quelli che sono favorevoli e contrari a fasi alterne.
Quello che all’inizio era più che altro un dubbio, con il piano si è trasformato in certezza: è evidente come alcune forze economiche esterne al Parlamento reclamassero fette di torta molto più grandi che ora sono riuscite a ottenere.
E oggi, alla luce della presentazione del PNRR, è palese come la tanto sbandierata mancanza di trasparenza del governo precedente fosse un pretesto per sedersi a tavola, visto che il piano è arrivato in aula pochissime ore prima dell’inizio della discussione.
Oltre a questo, devo dire che il piano presente tante tantissime ombre e solo qualche luce.
UNA BUONA NOTIZIA PER LA VALLE D’AOSTA
Prima di mettere nero su bianco alcune questioni che non mi piacciono voglio partire da una buona notizia per la nostra regione. Nel PNRR – che, ripeto, in linea complessiva non mi piace – c’è finalmente il finanziamento per l’elettrificazione della tratta Aosta-Torino.
Dei 110 milioni necessari:
- 84 Milioni arriveranno dal Piano nazionale di ripresa e resilienza;
- 26 Milioni arriveranno dal prossimo aggiornamento del contratto di programma-investimenti di Rfi.
L’elettrificazione, cosa che chiediamo da tempo, non sarà però l’unico intervento in tema ferrovia, in quanto saranno finanziati anche importanti interventi utili a renderla più veloce ad aumentarne gli standard.
QUELLO CHE PROPRIO NON MI PIACE
Ma veniamo adesso alle troppe ombre che incombono sul piano.
Per farlo, vorrei partire da una considerazione che leggevo qualche ora fa, che riguarda le parole usate nel testo e che rende l’idea di quali siano in linea concettuale con le priorità del PNRR.
La parola “concorrenza” compare 42 volte, mentre “competizione” addirittura 79. Numeri molto diversi rispetto a “disuguaglianze” (7) e “diritti” (18). E già questo ci dice qualcosa. Se messe insieme, “competizione”, “concorrenza” e “impresa” (257) hanno più del doppio di citazioni (378) arriviamo a più del doppio di “lavoro” (179), che pure sta sulla bocca di tutti come la questione più importante per il nostro paese.
Ora, non si tratta di mettersi a fare il campionato delle citazioni, ma l’enfasi sulle parole ha sempre qualcosa a che fare con il senso di un discorso, il suo indirizzo, le finalità cui soggiace. Il lessico ha la sua importanza. Così nel piano di Draghi le diseguaglianze spariscono nelle pari opportunità, i diritti nell’accessibilità ai servizi mentre la ricerca scientifica acquista la sua importanza se va verso l’impresa (e non per esempio verso il benessere dei cittadini).
Ma non è solo una questione linguistica o di direzioni politiche.
Venendo al contenuto, la prima voce che pesa sono i soldi alle imprese (14%) che con l’alta velocità (13%), valgono più di un quarto del piano.
Per la sanità territoriale si prevedono solo 7 miliardi in 6 anni (3,7%) e per la qualità dell’aria 1,69 miliardi (0,9%). 0,50 miliardi per la ‘previsione del cambiamento climatico’ (0,2%). La cultura raccoglie le briciole con appena 1,1 miliardi (lo 0,6%) per il patrimonio culturale e 0,16 miliardi, niente, per l’industria culturale.
Salta il salario minimo legale, che pure c’era. Un piano scritto da Mckinsey su mandato di Confindustria nord. Dunque.
Per spianare la strada agli investimenti, il Piano mette in campo le vecchie idee: liberare l’iniziativa economica dai controlli. Si limita la responsabilità per danno erariale e si semplificano le verifiche antimafia fino al 2023, nonostante la bocciatura secca dell’ANAC.
Al Sud doveva andare il 70% dei fondi, mentre invece è stimata una percentuale del 40%. Celebrata come una vittoria, si tratta piuttosto di una sottrazione di ben 60 miliardi.
Serviva a questo imporre un governo a trazione nordista, contro le indicazioni elettorali del paese, a mettere un ministro della Lega allo sviluppo economico e sostituire il ministro Provenzano al sud.
E dicono bene Silvia Prodi e Raffaele Cimmino, rispettivamente Responsabile riforme dello Stato e Responsabile Mezzogiorno di Sinistra Italiana:
“Secondo la narrativa prevalente il Recovery plan rappresenta un’imperdibile occasione per correggere, grazie alla mole di risorse, le storiche debolezze strutturali che rallentano la crescita dell’economia nazionale e al tempo stesso porre rimedio al secolare divario tra le regioni meridionali e il resto del paese.
Niente di più lontano dalla realtà: “con un giochino da illusionisti contabili, infatti, la quota destinata al Sud arriva al 40% ma solo perché ci si infilano le risorse del Fondo sviluppo e coesione.
Chi fa notare questo dato, e quindi ancora una volta il carattere sostitutivo anziché addizionale delle risorse, viene aspramente rimproverato. Non si capisce, si dice, che il Fondo verrà ricostituito. Intanto il 66% del Recovery plan non riguarda il Sud. Non è dettaglio da poco.
Aggiungiamoci che secondo un affidabile studio, curato tra gli altri da Riccardo Realfonzo, servirebbe il 30% addizionale delle risorse stanziate a fondo perduto dal Recovery per innescare una vera ripresa dell’economia italiana dallo shock pandemico. Basta per dire che quello che si intravede non può che destare preoccupazione.
Preoccupazione fondata, visto che lo stesso PNRR prevede che alla fine del ciclo del Recovery la ricchezza prodotta dal Mezzogiorno sarà del 23,7% della quota nazionale, al di sotto del dato del 1999.
Altro che ripresa e resilienza.“